Lettera a mio figlio da un figlio…

Lettera a mio figlio da un figlio…

Imparai presto nella mia vita a capire cos’era la Shoah, i campi di sterminio, i nazisti, l’orrore della guerra.
Quando ero bambino, avevo una passione smisurata per tutto ciò che era bellicoso, mi piacevano le divise, gli elmetti, i mitra e amavo travestirmi con questi “abiti” e giocare con altri bambini alla guerra: Americani, inglesi contro i tedeschi (così chiamavamo i nazisti, rendendoli con il gioco più umani).
Ignoravamo tutto il dolore versato in quei lunghi 5 anni di barbarie, la supremazia e l’arroganza di un popolo contro la maggioranza dell’umanità.
La mia famiglia era numerosa, eravamo in sette: nonna, mamma e papà, quattro fratelli, di cui io il più piccolo, quello che giocava da solo.
Mi inventavo battaglie incredibili con i mie soldatini dell’Aerfix, c’erano tutte le armate possibili di qualsiasi nazione che partecipò in quegli anni al secondo conflitto mondiale.
Insomma la guerra -non conoscendola- mi affascinava. Mi vedevo tutti i film possibili di quell’epoca. Ma i tedeschi erano la mia passione, non so bene il perché, forse la loro disciplina, le loro divise così ordinate – facevano anche un po paura- incutevano rispetto i loro simboli così suggestivi, facevano pensare ad un ordine superiore che avrebbe risolto i problemi del mondo.
Nei film in televisione, ma soprattutto al cinema, si vedevano solo battaglie, sbarchi, imboscate, “i buoni contro i cattivi”. Penso che per un fattore estetico, era sicuramente così, subivo il fascino dei soldati tedeschi, ahimè i nazisti!
Mio padre era uomo che la guerra la visse sulla sua pelle. Era stato partigiano nelle brigate badogliane con la mansione di staffetta, aveva come arma una Luger , una pistola tedesca, ma fu catturato da un manipolo di paracadutisti tedeschi, a sentir lui i più cattivi, in un fienile mentre dormiva. Venne picchiato perché reagì alla cattura e fu spedito immediatamente in un campo di lavoro nella Marche, vicino a Fano, dove lui tra l’altro in quel periodo viveva con sua madre e le sue due sorelle.
Nel frattempo gli stessi nazisti bruciarono la loro casa. Dovettero sfollare senza i loro averi, e senza più alcuna notizia di Carlo, mio padre. Erano davvero disperati.
Ecco mio padre mi raccontava di quei momenti, di cui non amava descrivere i particolari, che io insistentemente avrei voluto sapere. Mentre parlava il suo viso cambiava espressione, e suoi begli occhi azzurri si intristivano, allora diventava sbrigativo o cambiava argomento, come se volesse preservarmi dal dolore.
Era preoccupato per questa mia passione per le cose di guerra. Una sera, nel dare la buonanotte a me e mio fratello Paolo, scoprì che sulla spalliera del mio letto avevo disegnato una piccola svastica. Vidi in lui, per la prima volta uno sguardo freddo e di rimprovero, e mi disse “l’hai fatto tu”? Gli risposi di si.
Capii immediatamente di aver fatto qualcosa di molto grave. Andò via accigliato, e chiudendo la porta della camera, mi disse che a breve avremmo parlato dell’argomento. Dopo qualche giorno, una sera, dopo cena, mio padre mi chiamò e mi disse con aria seria di guardare insieme a lui un programma televisivo. Io acconsentii un po titubante, mi sedetti accanto a lui, che esordì dicendomi: “ora vedrai cosa hanno combinato i tuoi soldati tedeschi, che ami tanto!!!!!”
Era un documentario sul nazismo e i sui campi di sterminio.
Avevo otto anni. Da lì cambiò la mia vita e mi schierai fortemente contro quel popolo soggiogato dal pazzo criminale Adolf Hitler. Per mio padre, ne sono certo, non fu facile prendere la decisione di farmi vedere a quell’età delle immagini così forti e cruente, ma fu coraggioso e lo fece per amore di “verità”, l’unica Verità, e lo sarà sempre, finché ci sarà un giorno come questo: “il Giorno della Memoria”, da ricordare attraverso i libri e le testimonianze di persone che quello scempio hanno vissuto, come Liliana Segre, che ancora oggi parla ai giovani del coraggio, e dell’importanza di scegliere la libertà.
Io, grazie a mio padre, ho scelto la Libertà.



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